Pechino, l'Onu e lo Yemen

Probabilmente in molti vorrebbero vedere l'Epl cinese sbarcare in Yemen e installarvi, manu militari, un governo amico e in contrapposizione alle petro-monarchie sponsor del terrorismo internazionale. Si mettano (o ci si metta) il cuore in pace: non succederà mai. Il voto cinese favorevole alla risoluzione Onu sullo Yemen - che in sostanza isola i ribelli - ha a mio avviso una - ovviamente non la sola - spiegazione: Pechino teme le ripercussioni interne, la legittimazione internazionale di ribellioni nei confronti di governi ritenuti legittimi (e quello dello Yemen lo era e lo è), in un contesto nel quale il Paese è possibile bersaglio di una "rivoluzione colorata" con agganci esterni e di rischi di secessione in aree strategiche come Tibet e Xinjiang.
Va inoltre ricordato che i rapporti economici tra Cina e Arabia Saudita - Paese che guida la coalizione che è intervenuta contro i ribelli yemeniti - rappresentano un fattore non secondario: 71 miliardi di dollari. E la monarchia dei Saud resta il primo fornitore di greggio della repubblica popolare.
Vi ricordate cosa avvenne in occasione del referendum in Crimea? La Cina si astenne sul voto di condanna. Un'astensione che andava inquadrata nelle esigenze di sicurezza e preservazione dell’integrità territoriale della Cina popolare. A Pechino son ben coscienti del fatto che la condanna di Stati Uniti e alleati nei confronti del referendum svoltosi in Crimea può trasformarsi d'incanto in piena legittimazione dello stesso strumento per lo Xinjiang, il Tibet o Taiwan non appena - soprattutto nelle prime due - dovessero verificarsi "rivoluzioni colorale" o "primavere" che mettessero in discussione il governo comunista. La Cina guarda principalmente a se stessa e proprio per questo non avrebbe potuto legittimare il ricorso allo strumento referendario come via preferenziale per lo sgretolamento dell’integrità territoriale, soprattutto in un contesto internazionale caratterizzato dal susseguirsi dell’interventismo occidentale, diplomatico quanto bellico. Il precedente del Kosovo funge ancora da chiaro monito, non solo per il bombardamento intimidatorio Nato dell’ambasciata cinese a Belgrado, ma per il pieno sostegno occidentale alla secessione di fatto dalla Serbia della regione a maggioranza albanese.