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UN RIMORSO SI AGGIRA PER LA SINISTRA

Scritto da Lamberto Lombardi - Segretario Provinciale PCI Brescia.

Sarà che siamo a marzo ma si sente l’aria del cambio di stagione, senza poter dire se quella che inizia sarà primavera. Perfino al congresso di Sinistra Italiana pare abbiano cantato l’Internazionale.

I fatti sono due, il referendum costituzionale del 4 dicembre e la fuoriuscita di Bersani dal PD fatti che, strettamente connessi tra loro, sembrano guidarci in una consecutio di considerazioni inaspettate sino a pochi mesi fa.

I dati relativi al voto referendario sono stati talmente imbarazzanti per l’establishment politico-intellettuale da venire presto, e in un modo apparentemente inspiegabile, accantonati. Pare sia successo che il popolo, inteso come sudditi o, come si intendeva marxisticamente, una classe in sé diversa dalla borghesia, si sia ritrovato a votare unito contro le riforme proposte dal Governo. Questo popolo non ha voluto sentire ragioni e, in modo talmente trasversale da riconoscersi come unico denominatore comune proprio quella identità di ceto sociale, ha snobbato e rimandato al mittente le proposte di meravigliose sorti e progressive raffazzonate dagli scribi dei signori.

Al punto che invece di una chiara vittoria le destre d’opposizione hanno subito capito di trovarsi tra le mani un problema non da poco: due terzi della popolazione, ovvero tutti coloro messi alla corda da dieci anni di crisi nera, si era ricordata nello stesso momento di tutte le false promesse che le erano state fatte in questi venticinque anni di seconda repubblica. E, per di più, l’occasione l’hanno colta schierandosi in difesa della costituzione del ’48, costituzione che non molti avevano letto sino a quel momento.

C’è n’è abbastanza, per Salvini & c. , per stare molto attenti e sorvolare, facendo finta di niente e riprendendo la campagna contro gli immigrati e la politica.

 

Diversamente, nelle forze di governo, pur in assenza di una qualche apprezzabile pressione delle minoranze in Parlamento, si apre una crisi che cresce sino a determinare l’uscita di una parte importante di quel gruppo dirigente, tra cui appunto Bersani segretario del PD sino al 2013, cioè sino a ieri.

Di questo fatto la stampa ha dato conto attribuendogli solo una valenza politicistica in cui gli elementi personali rappresentavano l’unico movente e l’unica spiegazione.

Certamente non è così, sempre che non si voglia attribuire a Bersani e D’Alema la stessa levatura del senatore Razzi, sempre che non si voglia attribuire a questa fuoriuscita la stessa valenza di una qualche scissione di piccoli partiti d’opposizione e sempre che non si creda davvero che il problema rappresentato dal segretario Renzi sia esclusivamente di natura caratteriale non arrivando a cogliere le similitudini fatali tra lo stesso Renzi e Berlusconi, similitudini che vanno ben oltre la sfera individuale.

Comprendiamo i commentatori ed il loro imbarazzo perché questi fatti, se presi come meritano, recano con sé una serie di valutazioni la prima delle quali è che la componente ex-comunista del PD è pressoché scomparsa da quella formazione portandosi via una buona parte dei padri fondatori. E le altre valutazioni a seguire divengono intriganti.

Perché in un attimo si arriva a mettere in discussione la bontà di quella operazione riformista che ha portato alla nascita del PDS prima e del PD alla fine, e gli artefici di questa messa in mora sono proprio coloro che per decenni hanno martoriato l’elettorato col mantra del voto utile. Così la falla apertasi è sulla sinistra dello scafo di governo, e non dovrebbe essere una sorpresa dato che, per dirla con Bersani, tutti gli elettori di sinistra se ne erano già andati da tempo.

In effetti il combinato di leggi elettorali progressivamente sempre più maggioritarie, che hanno tacitato qualsiasi dialettica prima nel Parlamento e poi nello stesso partito di governo, più una crisi infinita di cui non si è trovato il bandolo e con l’aggiunta di una serie di provvedimenti quali Jobs act e legge Fornero, questo combinato, dicevamo, ha generato una crisi politica di cui non si intravede lo sbocco ma di cui è necessario, prima che legittimo, ricercare le origini.

Pare, in effetti, che nessuno degli sforzi politici della socialdemocrazia europea in questi trent’anni sia riuscito nell’intento di redistribuire le ricchezze che invece si accumulano senza ostacoli nei forzieri del grande capitale sottraendole ai lavoratori. E che ogni riforma, ogni ricambio di gruppo dirigente non sia stato altro che l’insediarsi di un nuovo circolo clientelare irresistibilmente attratto e plasmato dai poteri forti.

E’ tempo di bilanci e se anche fossimo soltanto dei pallidi liberali non ci resterebbe che riconoscere che, da cento anni a questa parte, l’unico contrappeso politico allo strapotere del capitale rimane una classe operaia organizzata. E senza contrappesi nemmeno si può parlare di democrazia. Non è una analisi difficile, il difficile viene ora, il difficile sta nell’aggiornare la definizione di classe operaia, nell’accettarne le semplici ma impegnative indicazioni di pratica politica, nel distanziarsi dal campo gravitazionale esercitato dai poteri forti che impongono realismo ed affidabilità.

Per ora la compagnia di Bersani si è solo messa in marcia, per ora quello della classe operaia è per loro solo un rimorso. Accendiamogli un faro nella notte.

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